11 Ott Umane diversità. Sempre dalla parte della vittima
La fraternità non è una parola semplice. Perché le fraternità sono molte, e non sono tutte né buone né cristiane. Ci sono sempre state persone e comunità che in nome delle loro fraternità hanno scartato e umiliato donne e uomini che non rientravano in quella loro fraternità, che per chiamare alcuni fratelli hanno offeso e ucciso i nonfratelli. Il grande racconto di Caino ci dice che la fraternità del sangue non garantisce nessuna amicizia, e che il fratello può essere il primo assassino. Altre fraternità non hanno visto né voluto le donne, e le hanno eliminate in nome di una fraternità parziale e sbagliata. Molto raramente i fratelli hanno incluso tutti i fratelli, ancora più raramente le sorelle tutte.
Era perciò importante che papa Francesco in Fratelli tutti ci dicesse subito quale fosse la sua fraternità. E ce lo ha detto scegliendo la parabola del Buon Samaritano come principale e in certo senso unico impianto teologico ed etico del suo discorso. E scegliendo questa parabola ha fatto una scelta di campo forte, partigiana e parziale. Ci ha voluto dire che la sua è fraternità universale centrata sulla vittima. Ce lo ha detto fin dal suo primo viaggio, quando scendendo dalla sua Gerusalemme (Roma) scelse Lampedusa come sua Gerico. Una scelta partigiana e parziale, perché l’etica del Samaritano è certamente una base solida e inequivocabile per una civiltà della prossimità e della misericordia, ma è meno ovvia come fondamento di un’etica della fraternità, perché le manca la dimensione decisiva della reciprocità. È meno ovvio perché la fraternità non è solo contenuto dell’azione dell’individuo, non è soltanto un comando rivolto a ciascuno di noi preso isolatamente; la fraternità è anche, e forse soprattutto, un comando che ci viene rivolto in quanto comunità, chiesa, società, umanità, un verbo coniugato alla forma plurale: ‘amatevi gli uni gli altri…’.
La parabola del samaritano non parla di fratelli di sangue (né prodighi né maggiori), né è direttamente interessata a qualche forma di azione reciproca: c’è una vittima, ci sono due individui separati che passano oltre, e c’è un terzo, il samaritano, che si china e si prende cura di quella vittima. Tra i vari protagonisti non scatta una qualche forma di interazione reciproca – se si eccettua, paradossalmente, quella finale tra il samaritano e l’albergatore.
Perché allora il Papa la sceglie come pietra angolare del suo discorso sulla fraternità, dandole una centralità tale da trascurare altri fondamentali passi biblici sulla fraternità nell’Antico e Nuovo Testamento? Dove si trova la ‘perla’ di quel racconto di Luca, così preziosa da vendere ogni altro tesoro pur di comprare il campo che la contiene? Fratelli tutti ce lo dice molto chiaramente: la scelta della parabola del Buon Samaritano è essenziale per annunciare oggi una fraternità incentrata sul contrasto tra prossimità e vicinanza, che da chiave di lettura della parabola di Luca diventa la chiave di lettura dell’intera terza Lettera enciclica di papa Francesco. A chinarsi e a soccorrere l’uomo mezzo morto imbattutosi nei briganti non furono i due passanti che erano quelli oggettivamente più vicini alla vittima – il levita ed il sacerdote erano, come la vittima, giudei, e per di più addetti alla cura in quella società, essendo funzionari del tempio. Erano i più vicini, ma non diventano prossimi.
Chi si chinò sulla vittima fu invece il più lontano, da ogni punto di vista (religioso, etnico, geografico, e forse, solo lui, passava anche sul lato opposto della strada). Divenne prossimo colui che aveva meno ragioni di vicinanza, e per di più appartenente a un popolo ‘scomunicato’. Diventa prossimo perché decide di diventarlo, perché, durante un suo viaggio, si imbatte in un evento inatteso, vi riconosce una vittima e sceglie la prossimità. Fratelli di sangue si nasce, prossimi e fratelli nello spirito si diventa scegliendo di diventarlo, oltre ogni ragionamento sui legami di vicinanza.
Scrive Francesco: «Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. … Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo » (Ft 67 e 70). Ecco il suo grande messaggio, la perla preziosa, la pietra angolare della sua fraternità: Il prossimo, il fratello e la sorella del Vangelo non sono il vicino.
La fraternità di Francesco, che nasce dalla prossimità del Vangelo, si differenzia e si allontana così da tutte le altre fraternità che la storia ha conosciuto e conosce. Allora questi fratelli (e sorelle) non sono i connazionali, non sono quelli che fanno parte della mia stessa comunità, non sono i simili. Non è la fraternità dei tanti ‘comunitarismi’ e dei tanti ‘noi’ che oggi stanno fortemente occupando la scena dei popoli e della Chiesa. Non è la fraternità dei vicini, è la fraternità dei lontani. Non è la fraternità degli uguali, è la fraternità dei diversi, non è la fraternità semplice, è la fraternità improbabile: «I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un ‘noi’ contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo » (89). Questa, invece, è la fraternità di Francesco: finora ce lo aveva detto con mille gesti e tante parole, ora le parole le ha riunite in una lettera al mondo intero.
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